Non è proprio una trasformazione digitale dell’agroalimentare ma qualcosa, anzi, più di qualcosa, si muove. Quella dell’agricoltura è una storia sviluppatasi su un percorso di continua innovazione tecnologica. E la tecnologia occorre a produrre meglio in meno tempo, con meno fatica, costi e rischi. Una volta l’innovazione nei campi era rappresentata dai trattori mentre oggi abbiamo i droni, per il monitoraggio e gli interventi di precisione sulle coltivazioni, ma anche i sensori per il controllo della salute delle colture, e le app, a disposizione di agricoltori e agronomi, per studiare al meglio trend e programmi produttivi.
Stiamo parlando dell’agricoltura 4.0, che oggi in Italia è –udite udite- una realtà mica da sottovalutare se si valutano i dati raccolti dall’Osservatorio Smart AgriFood della School of Management del Politecnico di Milano e del Laboratorio Rise dell’Università degli Studi di Brescia, che qui riportiamo.
Basti dire che nel nostro paese ha un mercato di 100 milioni di euro, il 2,5 per cento di quello globale che vale 3,5 miliardi di euro. E si avvale di 300 nuove soluzioni tecnologiche, dai sensori ai droni in campo, al packaging intelligente o attivo, utilizzate lungo la filiera (produzione, trasformazione, distribuzione e consumo). Con ben 481 start up internazionali nate negli ultimi sette anni, di cui ben 60 italiane, il 12 per cento.
Le nuove tecnologie interconesse, nell’agroalimentare, possono garantire competitività a uno dei settori chiave per l’economia italiana, che contribuisce per oltre l’11 per cento del Pil e per il 9 per cento sull’export nazionale.
Da un lato può ridurre infatti i costi di realizzazione di prodotti di alta qualità, dall’altro far crescere i ricavi grazie a una maggiore riconoscibilità o garanzia, per esempio con sistemi di anticontraffazione o di riduzione dei prodotti non conformi esportati. Ma l’innovazione digitale consente anche di intervenire a supporto dell’intera filiera, garantendo sostenibilità a tutti gli attori del settore, inclusa la produzione in campo.
Il digitale, pertanto, può far fare il salto verso una maggiore competitività, garantendo più qualità dei prodotti, riduzione dei costi e più efficienza nella filiera. Eppure ci sono ancora non poche criticità da affrontare. Basti dire che meno dell’1 per cento della superficie italiana coltivata è gestita con queste soluzioni.
Perché le tecnologie digitali facciano valere pienamente il proprio potenziale occorre però che si realizzino alcune condizioni. Innanzitutto, è necessaria l’estensione della banda larga ed extra-larga anche alle zone rurali per garantire l’interconnessione della filiera. Poi, servono sensibilità, competenza e propensione all’investimento da parte delle imprese, un fatto non scontato, considerando le esigue dimensioni medie delle aziende italiane.
Non bisogna, tuttavia, fermarsi solo alla fibra veloce. Un’agricoltura “smart” passa indubbiamente da una connessione, intesa invece come collaborazione con le reti del territorio e con le esigenze dell’ambiente, con un approccio circolare e sostenibile. Perché in Europa si sta passando dal dogma produttivista che ha prevalso fino agli anni ‘60, quando l’agricoltura industriale decollò, e che oggi non è più sostenibile, ad un modello nuovo che guarda al biologico ed al cibo locale.
Ovviamente tutti i dati raccolti dalle nuove tecnologie vanno saputi leggere ed interpretare, e qui riemerge l’esigenza di investire in formazione e competenze. Uno sforzo che varrebbe la pena affrontare se ci si sofferma ad analizzare il contestuale ritorno che molti italiani, e calabresi, stanno conducendo verso l’agricoltura, sia per ragioni di sbocco occupazionale che di living style.