Aree interne, una narrazione da invertire: i giovani potrebbero restare

Facebook
Twitter
LinkedIn

La pandemia ha sconvolto le nostre vite, la nostra quotidianità e numerose certezze tra le quali quella che ciò che accade dall’altra parte del mondo non possa colpirci o peggio ancora non debba interessarci. Molti argomenti, cari al nostro Paese, hanno subito o stanno subendo un cambio di prospettiva e finalmente ci stiamo accorgendo che come li affrontavamo prima non andava affatto bene se l’obiettivo era trovare delle soluzioni. La narrazione della società contemporanea frettolosamente alla ricerca di una prosperità evanescente identificato nello smartphone all’ultimo grido e nel profitto a tutti i costi, sta lasciando spazio quanto meno ad una riflessione su ciò che possa essere davvero considerato benessere.

Ancora una volta sono i giovani a tracciare la strada, e per chi ancora in questo Paese non lo avesse capito che è loro che dobbiamo ascoltare di più e intorno a loro costruire le politiche pubbliche in grado di generare un mondo pronto ad accoglierli e a valorizzarli.

In una ricerca dal titolo “Giovani dentro”, che potete approfondire a questo link ,  emerge una spinta fortissima ad invertire la narrazione che facciamo ormai da decenni sul tema delle aree interne e dei borghi come se l’unica cosa possibile da raccontare forse l’emergenza spopolamento, l’abbandono da parte delle giovani generazioni, la carenza di infrastrutture ed opportunità.

Ma chi ha avuto la fortuna di viaggiare per il nostro Paese, anche solo attraverso il web, ha scoperto che questi luoghi sono molto di più di quanto appare e che in realtà molti sono diventati spazi a cielo aperto per sperimentare nuovi modi di vivere, lavorare, produrre economia, cultura e socialità. E i nostri giovani è proprio questo quello che stanno scoprendo, nell’ottica di scardinare il solito meccanismo che contrappone il centro alla periferia, la campagna con la città, le aree interne con i grandi centri urbani.

Le nostre aree interne, i nostri straordinari piccoli borghi hanno certamente bisogno delle infrastrutture materiali e digitali, ma hanno bisogno soprattutto di infrastrutture sociali ovvero di ricucire relazioni umane tra comunità stanziali e temporanee, tra generazioni diverse e stili di vita nuovi. Fare rete, creando delle filiere culturali e turistiche tra borghi capaci a loro volta di generare servizi condivisi nel campo dei trasporti e del welfare; usare le rete digitale per fare comunità con il resto del mondo esportando i nostri prodotti artigiani e assorbendo le innovazioni di chi per lavoro viaggia e scopre ogni giorno il mondo. Non è detto che l’unica strada per i nostri giovani sia andare via o restare, in realtà si può costruire un circuito virtuoso tra chi va e chi ritorna, chi fa il pendolare con la grande città e chi decide di rigenerare la vecchia azienda agricola dei nonni per renderla moderna e sostenibile.

A noi tocca costruire gli strumenti giusti affinché i nostri giovani si appassionino a questo meraviglioso Paese che è l’Italia, e forse il primo passo utile sarebbe quello di mettere in soffitta i soliti paradigmi con i quali raccontiamo loro il nostro territorio.

Photo credit: Stefania Emmanuele