“Smart working” fenomeno in crescita. Ma in Italia le reticenze sono culturali

Facebook
Twitter
LinkedIn

In un futuro non troppo lontano oltre la metà della forza lavoro europea –circa il 65%- non dovrà più recarsi in ufficio. Saranno qualcosa come 123 milioni gli individui che, secondo gli esperti della società di ricerca Idc, nel 2022, potranno essere definiti “mobile worker”. Ovvero, gli esecutori dello smart working, il “lavoro agile” che non significa soltanto, ci tengono sempre a precisare gli osservatori delle nuove dinamiche occupazionali, lavorare “da remoto” bensì scegliere una modalità di svolgimento delle proprie mansioni organizzandosi per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, adiuvati, quello si, da  strumenti tecnologici.

Le stime dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano dicono che in Italia, gli smartworker, ora sono 480 mila, corrispondenti al 12,5% del totale degli occupati e sono rappresentati nel 76% dei casi da uomini. Anche il settore della pubblica amministrazione inizia a registrare i primi progetti, l’8% ha infatti avviato strutture che permettono lo smart working, ed un altro 8% prevede di farlo il prossimo anno.

Dati destinati ad aumentare esponenzialmente se è vero che, secondo invece quanto sostenuto dalla Idc, saranno, fra quattro anni, addirittura 10 milioni sparsi per lo Stivale.

Eppure, gli italiani (sia i lavoratori che gli imprenditori) sembrano ancora troppo legati al luogo ufficio e alla rigidità degli orari. Basti pensare che, secondo quanto riporta l’Osservatorio, il modello di smart working più diffuso tra le grandi imprese prevede la sola possibilità di lavorare da remoto. Lo smart working invece prevede una diversa concezione del modo di lavorare, in cui il parametro di valutazione non è più sul tempo, ma sui risultati.

E’ più diffuso nelle grandi imprese, tra queste una su due – il 56% – sostiene di adottare soluzioni che promuovono la flessibilità di luogo e di orario dei lavoratori, dato in aumento rispetto allo scorso anno in cui solo il 36% delle aziende permette il lavoro agile.
Per quanto riguarda le piccole e medie imprese la situazione è molto simile a quella rilevata nel 2017, con l’8% del campione che ha in tal senso progetti strutturati, mentre il 16% li ha informali. Rimane però alta la percentuale, il 38% di quelle che si dicono del tutto disinteressate all’introduzione del modello.

Tuttavia, per far si che sia possibile il vero e proprio boom dello smart working, almeno per come prevedono le stime della Idc, per ciò che riguarda il nostro paese, è necessario un cambio culturale ed è proprio per la mentalità, sia di lavoratori che delle imprese, che il lavoro agile è ancora poco diffuso.

Secondo Carlo De Angelis, architetto specializzato in progettazione di uffici per smart work e founder di Dec, intervistato dal Sole 24 Ore: “in Europa siamo indietro, peggio di noi solo Grecia e Cipro. Nel Nord Europa c’è una maggiore diffusione dello smart working perché esiste una predisposizione culturale che considera il lavoro da casa impegnativo e serio quanto lo sia svolgerlo in ufficio. Se in Italia non scardiniamo questa concezione di “sorveglianza” del lavoratore sarà impossibile fare il salto di qualità”.

Insomma, nel Bel Paese, questa tipologia di lavoro non è proprio così diffusa e per vederlo crescere, tuona De Angelis, occorre partire dalla “formazione manageriale, perché sono i dirigenti a determinare l’approccio lavorativo all’interno dell’azienda. La spinta al cambiamento deve comunque partire dai vertici aziendali, che sono spesso i primi a non conoscere le potenzialità del lavoro agile”.

A confermare che le reticenze in Italia siano soprattutto di natura culturale, uno studio della Randstad Workmonitor, sostiene che, seppur otto italiani su 10 apprezzano lo smart working, il 62% dei dipendenti – contro una media globale del 56% – afferma che il proprio contesto lavorativo offre tutti gli strumenti necessari per poter lavorare al di fuori dell’ufficio e il 65% dichiara di avere la libertà di poter organizzare le priorità del proprio lavoro, ma solo il 41% dei lavoratori utilizza con regolarità strumenti per organizzare riunioni online.

A frenare la diffusione dello smart working sono quindi da una parte le imprese che troppo spesso vogliono “controllare” i propri lavoratori, dall’altra i lavoratori stessi poiché uno su due pensa che il lavoro agile possa avere ripercussioni negative sulla sua vita privata e soprattutto che rappresenti il passaggio precedente al licenziamento.

E’ un tema, dunque, che merita una presa di coscienza maggiore, ad iniziare dalle parti sociali, altrimenti qualunque sforzo per colmare i grandi gap economici e occupazionali non porterà a nulla. Poiché il punto non sono solo le politiche economiche ma anche il rapporto che vogliamo avere con la cultura del lavoro e la formazione.

Nella mia esperienza ho potuto sperimentare come anche in Calabria si possano creare opportunità semplicemente aggregando le persone in spazi condivisi che ispirano il confronto di idee ed esperienze. Nel futuro di cui parlavo all’inizio, che in realtà è già oggi, sarà fondamentale possedere la capacità di lavorare da remoto, in team multiculturali e sparsi tra diversi emisferi, senza addirittura essersi mai incontrati, piuttosto che gestire a distanza processi produttivi sapendo governare la tecnologia e valorizzando al meglio la qualità dei propri collaboratori. Sarà un mondo in cui, probabilmente, nessuno farà per tutta la vita lo stesso lavoro. Per costruirlo, non è solo necessario investire in formazione sulle competenze trasversali e sull’imprenditività, ma bisogna proiettarsi verso un nuovo approccio che è quello che vede ogni lavoratore impegnato in un continuo processo formativo e ogni azienda impegnata a valorizzare quel processo.

Alla politica spetta il compito di riportare in equilibrio questo Paese ridimensionando il più possibile le conflittualità e spingendo, al contempo, l’innovazione in tutti gli scenari della nostra società.